La prolungata disattenzione al peggioramento delle disuguaglianze, in Italia come in altri paesi dell’Occidente, il predominio di una cultura per cui l’inclusione sociale e il progresso della libertà sostanziale delle persone non sono obiettivi in sé ma vincoli nel perseguimento della crescita, ha prodotto in vaste sezioni della popolazione domanda di muri e nazioni chiuse, intolleranza delle diversità, sfiducia nelle autorità e nei “tecnici”. Le conseguenze politiche di questo stato di cose hanno ora allertato le classi dirigenti, ma nel correre ai ripari esse non paiono comprendere che il disegno di nuove politiche capaci di rimuovere gli ostacoli al “pieno sviluppo della persona umana” – in Italia compito della Repubblica, secondo Costituzione – richiede di mettere in gioco, luogo per luogo, le conoscenze di centinaia di migliaia di cittadini, di lavoratori, di migranti. E richiede che fra queste conoscenza avvenga un confronto acceso, aperto, informato e ragionevole, volto alla ricerca di “accordi”.
È questo il metodo che migliaia di organizzazioni di cittadinanza, assai diverse per missione, paradigma culturale e dimensione, adottano o cercano di adottare nel lavoro quotidiano su svariati profili della vita umana. Con una “partecipazione” sostanziale dei cittadini alla realizzazione di servizi, al disegno e all’attuazione di soluzioni, al superamento di ostacoli, o al presidio e controllo dell’azione pubblica. Esiste, in questo arcipelago di esperienze, che pure migliorano la vita di tante persone, un accumulo di conoscenze che, anche in presenza di uno Stato in genere assai impreparato, fatica a trasformarsi in analisi e riflessione di sistema. Per questa ragione è importante che tre organizzazioni diverse come ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food Italia, accettando di sacrificare un’oncia della propria specificità, abbiano scelto di lanciare questo Festival e di utilizzarlo come palestra per riconciliare linguaggi, modificare convincimenti e sperimentare idee di sistema.